Fatture per operazioni inesistenti per coprire una dazione di danaro
Nell’ambito della frode fiscale, il soggetto che emette e/o riceve fatture per operazioni inesistenti vuole normalmente perseguire un preciso scopo: conseguire un indebito vantaggio fiscale ai fini personali ossia consentire a terzi di evadere, illecitamente, le imposte erariali dovute.
In merito, l’inesistenza della fattura può essere oggettiva, in quanto la stessa documenta operazioni in realtà mai avvenute (in tutto o in parte) ovvero soggettiva, qualora l’operazione documentata sia in realtà intercorsa fra soggetti diversi da quelli risultanti nella fattura medesima.
Sotto il profilo penale tributario, l’articolo 2 del D.Lgs. 74/2000 (rubricato dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti), sanziona con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti indica, in una delle dichiarazioni relative a dette imposte, elementi passivi fittizi che consentono di ridurre la base imponibile.
Il fatto si considera commesso utilizzando “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, ovvero sono detenuti ai fini probatori nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
Recentemente, il D.Lgs. 158/2015 (recante disposizioni relative alla revisione del sistema sanzionatorio), ha esteso le fattispecie penalmente rilevanti anche alle dichiarazioni infrannuali presentate dal contribuente a vario titolo.
Rilevano, a tal fine: la dichiarazione relativa alle liquidazione volontaria di società di capitali, di società persone e delle imprese individuali; le dichiarazioni di inizio e di chiusura della procedura fallimentare ossia di liquidazione coatta amministrativa ovvero, infine, le dichiarazioni presentate nelle ipotesi di trasformazione, di fusione e di scissione societaria.
Dal lato della fatturazione attiva, l’emissione di fatture per operazioni inesistenti è sanzionata dall’articolo 8 del D.Lgs. 74/2000 (rubricato emissione di fatture ed altri documenti per operazioni inesistenti) il quale sanziona, con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
L’imposta indicata nella fattura per operazioni inesistenti è comunque dovuta. Infatti, ai sensi dell’articolo 21, comma 7, del D.P.R. 633/1972: “se il cedente o il prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”.
In linea di principio, il soggetto attivo del reato deve quindi agire con il fine di consentire a terzi di evadere l’Iva o le imposte sui redditi.
Tuttavia, sulla base dell’interpretazione espressa nel tempo da parte della giurisprudenza di legittimità (in primis cfr. Corte di Cassazione, sentenza 7 maggio 2010, n. 17525), il fine di evasione può anche non essere esclusivo considerato che anche altre finalità possono coesistere con quella fiscale, ma quest’ultima deve sempre sussistere perché mancando il dolo di evasione il reato penale non è configurabile.
Tale linea di pensiero è stata recentemente confermata dalla VI sezione penale della Corte di Cassazione (sentenza n. 52321 del 09 dicembre 2016) la quale, richiamando il precedente orientamento, ha ribadito che il “fine di evasione” previsto nel reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti (ex articolo 8 del D.Lgs. 74/2000) non è esclusivo, potendo ben concorrere con altre finalità “extra-tributarie”.
Di conseguenza, una fattura per operazioni inesistenti emessa con il solo scopo di “formalizzare contabilmente” l’erogazione di un compenso illecito, indicando nel documento fiscale una causale completamente diversa da quella reale, è da considerarsi giuridicamente inesistente e, come tale, è idonea a configurare il reato in rassegna.
Infatti, gli ermellini hanno accertato che esiste un collegamento tra i reati di corruzione ed i reati tributari, tenuto conto che questi ultimi risultano funzionali a “coprire” le tangenti erogate nei confronti di pubblici ufficiali.
Nello specifico, i fatti in causa riguardavano una vicenda di corruzione avvenuta fra imprenditori privati e funzionari di un comune che avevano incassato somme per ottenere l’indebito rilascio di concessioni edilizie.
In merito, per coprire la tangente, venivano emesse fatture per operazioni inesistenti recanti la causale fittizia “servizi per consulenze”.
La suprema Corte ha qualificato tali fatture come relative ad operazioni inesistenti, con la conseguenza che l’imputato è stato condannato per il reato previsto dall’articolo 8 del D.Lgs. 74/2000.
In definitiva, il fine di evasione delle imposte previsto dalla norma penale non costituisce un fine esclusivo ai fini del reato e, per tale motivo, lo stesso può concorrere con altre finalità quali, ad esempio, quelle di giustificare la corresponsione di denaro ai fini corruttivi.