In capo al curatore fallimentare l’onere di smaltire i rifiuti abbandonati nell’area su cui opera l’impresa
È posto in capo al curatore fallimentare l’onere di smaltire i rifiuti abbandonati (di cui all’art. 192 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) nell’area su cui opera l’impresa e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare: lo ha affermato l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 16 dicembre 2020, n. 3/2021, depositata lo scorso 26 gennaio (e riportata sul sito della Giustizia amministrativa).
Per i giudici di Palazzo Spada, in particolare:
- la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell’impresa, tramite l’inventario dei beni dell’impresa medesima ai sensi degli articoli 87 e seguenti della legge fallimentare, comportano la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione;
- in tale situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare “beni negativi”), ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti;
- l’art. 3, par. 1, punto 6, della Direttiva n. 2008/98/CE definisce il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei beni immobili sui quali i rifiuti insistono.
Non rilevano pertanto le nozioni nazionali sulla distinzione tra il possesso e la detenzione: “ciò che conta – ha precisato il Consiglio di Stato – è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) l’amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati”. La curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può quindi invocare l’esimente di cui al richiamato art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale dell’impresa cessata.